IL RUOLO DEL MEDICO NELLA PREPARAZIONE DELLA SCHERMA AD ALTO LIVELLO (Prima Parte)di Dott. Antonio Fiore (Medico della Nazionale azzurra)

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IL RUOLO DEL MEDICO NELLA PREPARAZIONE DELLA SCHERMA AD ALTO LIVELLO (Prima Parte)di Dott. Antonio Fiore (Medico della Nazionale azzurra)

Il medico della FIS Dott. Antonio Fiore spiega il ruolo del medico alla luce dell’evoluzione dello sport moderno e del modello di organizzazione della preparazione nella scherma di alto livello. È il primo di una serie di articoli che il Dott. Fiore dedicherà all’argomento su queste pagine

Roma – Ho accettato con piacere di scrivere un articolo per la newsletter della F.I.S., perché mi attirano le immense potenzialità di un’iniziativa mediatica come questa, sotto molti aspetti innovativa per il mondo della scherma.

La possibilità di comunicare in tempo reale con il mondo degli appassionati di scherma rappresenta uno degli aspetti di sicuro più utili e affascinanti offerti da internet, strumento per altri versi non sempre facilmente gestibile e, purtroppo, non di rado addirittura pericoloso, in quanto fonte di informazioni e notizie non sempre controllabili.

Per questa mia prima apparizione ho deciso di affrontare un argomento che, per ovvi motivi, mi sta particolarmente a cuore: l’evoluzione che ha subìto e la direzione in cui sta andando lo sport moderno, con particolare riferimento al ruolo nel suo contesto del medico, figura professionale spesso chiamata in passato a svolgere mansioni, ahimé, piuttosto inquietanti, ovvero puramente accessorie, o dai contorni comunque non ben definiti.

La cultura dello sport si è radicalmente modificata negli ultimi anni, per una serie di ragioni complesse, legate sia agli eventi storici e politici che hanno caratterizzato la fine del XX° secolo, sia allo sviluppo globale della nostra società, sotto il profilo economico, culturale, tecnologico, scientifico.

Purtroppo, in questa complessa metamorfosi hanno pesantemente influito anche e soprattutto una serie di eventi traumatici che hanno spesso occupato le prime pagine dei giornali.

Mi riferisco in particolare al tragico fenomeno del doping, in tutte le sue drammatiche manifestazioni ed implicazioni.

Malgrado tale piaga non abbia fortunatamente mai interessato la nostra disciplina, la sua cronicizzazione in altri sport ha provocato la giusta e preoccupata reazione dei governi di tutti i paesi, che si sono attivati a tutti i livelli, ma soprattutto sul piano organizzativo e legislativo, per arginarne la progressione degenerativa.

L’insieme delle iniziative nel campo della lotta al doping ha avuto ed ha tuttora una sostanziale finalità: determinare una crescita culturale e una graduale presa di coscienza del mondo sportivo, in funzione di una visione dello sport stesso quale attività finalizzata in primo luogo al miglioramento delle condizioni di benessere globale dell’individuo e, dunque, della società nel suo complesso.

Quest’ultima considerazione, se da un lato appare scontata e quasi superflua, dall’altro, soprattutto nello sport di alto livello, ancora non lo è del tutto.

Troppi, infatti, sono gli interessi in ballo nello sport moderno, per non anteporre la logica del risultato a tutti i costi a quello che, viceversa, è il bene più importante da salvaguardare: la salute dell’atleta.

Un concetto errato che trova in Italia una sua perentoria contrapposizione, sotto il profilo legislativo, nell’oramai nota legge 376 del 2000, la quale, per l’appunto, sancisce in modo inoppugnabile l’obbligo di anteporre la salute dell’individuo-atleta all’aspetto competitivo ed agonistico.

Questa premessa era doverosa per aiutarmi nel far comprendere come, alla luce di quanto appena detto, il significato, la filosofia, la logica stessa del lavoro del medico che operi in campo sportivo siano profondamente mutati.
In passato la figura professionale del medico aveva l’obbligo di essere completamente e, direi, pedissequamente funzionale alle esigenze dei tecnici, i quali gestivano tutti gli aspetti della vita dell’atleta, da quelli prettamente tecnici, a quelli connessi alla preparazione fisica a, purtroppo, quelli relativi alla gestione stessa della salute: decidevano loro, in sostanza, se, quando, dove e come i loro atleti dovessero curarsi.

Fino alla metà degli anni ’80, era attiva ancora una generazione di medici, che definirei “prestati” allo sport, i quali erano disposti ad accettare di buon grado l’insieme talora pesante di compromessi legati alla necessità di convivere con i protagonisti del mondo sportivo; spesso, bastava molto poco per riceverne la collaborazione: un passaggio televisivo, un viaggio-premio interessante, un biglietto omaggio per una partita, ecc.

A quell’epoca, nel mondo dello sport in generale, ma ovviamente anche in quello della scherma, non si concepiva nemmeno una figura che potesse interagire con gli atleti al fine, ad esempio, di migliorarne lo stile di vita, di curarne l’alimentazione, di prevenirne gli infortuni.

I medici che operavano in campo sportivo erano quasi sempre ex-atleti di quella specifica disciplina, professionisti spesso assolutamente impreparati di fronte anche alle più elementari problematiche medico-sportive, risolte il più delle volte con sistemi empirici e spesso risibili. Si trattava di specialisti di altre branche che nella migliore delle ipotesi avevano, come unico titolo di merito, quello di essere amici o parenti del dirigente Tal dei Tali.

All’inizio degli anni ’80, cominciarono a sorgere in alcuni Paesi, tra cui l’Italia, le prime scuole universitarie di specializzazione in Medicina dello Sport, che iniziarono a sfornare una generazione di professionisti specificamente “concepiti” per operare in campo sportivo.
Questi medici hanno rappresentato l’avanguardia di un drappello di specialisti che via via negli anni si sono impegnati oscuramente, tra problemi e difficoltà di ogni tipo, animati soprattutto da una grande passione, per affermare l’importanza e la dignità di un lavoro “dietro le quinte” che non sempre tuttora viene adeguatamente valutato e apprezzato.
Professionisti di sport a tutti gli effetti, dunque, che si sono sacrificati per molti anni, in cambio di soddisfazioni quasi essenzialmente morali, anche in funzione della necessità di contribuire alla crescita culturale di un ambiente, come quello sportivo, spesso retrivo e poco disponibile ai cambiamenti.

Ritengo sia possibile tranquillamente affermare che le cause del tragico sviluppo del doping in alcuni sport, almeno in Italia, non vadano in alcun modo ricercate in abusi o errori da parte di questa generazione di medici, ma in attività criminali effettuate in ben altre sedi e contesti scientifici, più vicini alla farmacologia e alla biochimica applicata.
Ad ogni modo, la filosofia di lavoro dei medici sportivi che hanno lavorato al seguito di squadre nazionali nel corso degli anni ’90 era tutta proiettata nel senso di fornire il proprio contributo, per quanto lecito, prevalentemente al miglioramento della prestazione.

Ciò, ovviamente, ha dato il modo ad alcuni di loro, i più fortunati o spregiudicati, di effettuare un’operazione a mio avviso sempre destinata al fallimento per qualsiasi medico sportivo: “legarsi”, o tentare di legarsi, al risultato, allo scopo di ricavarne benefici, di volta in volta economici, o di immagine o, ancor meglio, di ambedue.
Ecco la ragione del periodico fiorire, in campo sportivo, di “stregoni”, di strabilianti risolutori di problemi medici di ogni tipo, di miracolosi alchimisti, di prodigiosi creatori di sistemi di miglioramento della performance che poi, guarda caso, non si sono mai rivelati affidabili o realmente efficaci all’esame del tempo: un grosso insieme di “bufale”, insomma.

Chi non ricorda biciclette avveniristiche, ritenute fondamentali ai fini di record ottenuti probabilmente con ben altri sistemi; oppure carnetine varie, giudicate fondamentali ai fini della rigenerazione dei nostri asfittici calciatori ai vincenti mondiali di calcio dell’82; oppure ancora, fenomenali interventi chirurgici con guarigioni a tempo di record nel corso dei mondiali di calcio del ’94 (ma la lesione c’era veramente? ed era veramente quella con sapienza “venduta” ai mass media e al pubblico?).

Va sottolineato come, in questo caos di trovate apparentemente geniali, il mondo della scherma abbia fortunatamente mantenuto, almeno in Italia, quel suo tipico atteggiamento tra lo scettico e il refrattario, in gran parte legato alla consapevolezza di come ben altri e complessi, rispetto a quelli semplicisticamente connessi alle qualità fisiche, siano i meccanismi sui quali si fonda la bontà di una performance.
Dico questo non certo per negare l’importanza di una corretta preparazione fisica nella scherma, concetto che rappresenta da circa quindici anni un pallino (non solo mio), quanto per collocare tale componente nella giusta misura, nel contesto di quelle indispensabili per mettere a segno le stoccate.

Essere ben preparati è, infatti, come tutti oramai ben sanno, una condizione necessaria, ma non sufficiente, per diventare attualmente uno schermitore competitivo: tale assioma sembra oramai scontato e fa parte delle nostre convinzioni, ma è singolare rammentare come, fino a solo poco più di dieci anni fa, fosse ancora sostanzialmente messo in discussione da una cospicua schiera di importanti maestri di scherma, forse timorosi di mettere in discussione le convinzioni con le quali erano cresciuti e si erano formati.

Ma veniamo all’attualità. Come detto nella premessa, lo sport è cambiato. Oramai, almeno dal punto di vista medico, si è raggiunta la piena consapevolezza di come l’obiettivo principale da perseguire consista in un approccio corretto alla salute dell’atleta, bene da considerare prioritario rispetto a qualsiasi altro.

Per approccio corretto intendo in primo luogo l’acquisizione di una mentalità che contrasti quella di uno sport eccessivamente medicalizzato, a tutti i livelli.
La cultura della chimica, degli antidolorifici, dei polivitaminici, degli integratori dalle qualità mirabolanti e non sempre ben chiare, ecc…, che nei suoi aspetti più degenerativi si manifesta perfino in rapporto all’attività sportiva giovanile, deve gradatamente essere sostituita da una visione dello sport come processo di adattamento biologico nel quale l’individuo va aiutato e rispettato in funzione di un globale miglioramento del suo stato di benessere, senza alcun ausilio esterno, farmacologico o meno.
Non facciamoci illusioni: ci vorranno ancora diversi anni prima che tale mentalità cambi, soprattutto nell’attività di alto livello, che comporta, come già accennato in precedenza, esigenze particolari, connesse anche e soprattutto agli interessi economici che ruotano intorno al business-sport.

Recentemente, presso la Scuola dello Sport del CONI, a Roma, ho assistito con interesse ad un seminario tenuto da uno dei “guru” dello sport mondiale: il prof. Platonov, ricercatore ucraino, vera e propria leggenda vivente nel campo della metodologia dell’allenamento sportivo.
Ebbene, una delle più importanti considerazioni espresse da Platonov nella sua premessa, si riferiva proprio alle profonde modificazioni avvenute nella teoria dell’allenamento sportivo, in rapporto alle mutate esigenze di pianificazione degli appuntamenti agonistici nel corso della stagione, a loro volta dettate dalle dinamiche economiche che governano il mondo dello sport.

In passato, gli appuntamenti realmente importanti nel corso della stagione di un atleta erano relativamente pochi e in relazione ad essi si poteva pianificare un programma di allenamento tutto finalizzato al raggiungimento dello stato di forma per periodi relativamente ristretti di tempo: si mirava ad un obiettivo circoscritto e, dato questo molto importante, si raggiungeva quasi sempre l’obiettivo.
Negli anni ’70 e ’80, infatti, in certe discipline sportive si riusciva, in una percentuale elevatissima di casi, ad ottenere l’obiettivo di portare un atleta alla sua massima performance proprio nel giorno della finale olimpica.

Al giorno d’oggi, nella grande maggioranza degli sport, compresa ovviamente la scherma, il numero e la frequenza degli impegni agonistici sono aumentati a tal punto, da rendere necessaria una concezione della pianificazione dell’allenamento radicalmente diversa e tutta proiettata nel senso del raggiungimento di compromessi il più possibile efficaci tra la necessità di somministrare adeguati carichi di lavoro e la contrastante esigenza di ottenere uno stato elevato di forma per gran parte della stagione.

Tutto ciò, com’era prevedibile, ha determinato anche l’affermarsi graduale di un’altra esigenza fondamentale: quella di prevenire gli infortuni e le patologie in genere, che rappresentano di sicuro l’ostacolo maggiore al raggiungimento di qualsiasi risultato.
Pertanto, come ribadito dallo stesso Platonov, uno dei punti di riferimento allo stato attuale di gran lunga più importanti, per chiunque voglia occuparsi in modo serio della preparazione di un atleta, tanto più se di alto livello, è rappresentato dalla necessità di gestirne la preparazione alla luce di un atteggiamento che lo preservi in primo luogo dalle malattie.
Tale atteggiamento si basa, come già detto, su una visione dell’atleta come individuo biologicamente fornito di qualità di adattamento che vanno gestite soprattutto in funzione del suo stato di salute.

Una filosofia del genere presuppone una modalità di lavoro sull’atleta che non può prescindere da una strettissima collaborazione tra tutte le figure di riferimento per la sua preparazione.
Nel caso della scherma di alto livello, dunque, vanno citati in ordine sparso: il responsabile tecnico, il maestro (sempre se è uno solo), il medico, il preparatore fisico (o atletico che dir si voglia) e poi, via via, il fisioterapista, l’osteopata, il chiropratico e, non ultimo, anche ovviamente lo psicologo.

Talora ho dovuto constatare come questo affastellamento di persone, ognuna con le proprie legittime opinioni e nell’ambito del proprio ruolo, rischia tuttavia di scatenare un po’ di confusione, soprattutto nei casi in cui l’atleta debba recuperare dopo infortuni.
Per attivare un modello di lavoro che preveda l’interazione di un insieme così complesso e variegato di figure professionali, ci vuole un’organizzazione particolare che può, ovviamente, basarsi su vari modelli.

Poiché un’analisi approfondita di tali modelli, per lo meno nel caso della scherma italiana di alto livello, richiede tempo e spazio, preferisco rimandarla ad un prossimo articolo, anche perché essa si basa, nel mio caso, su un’esperienza che rivendico come rilevante (avendo assorbito i migliori anni della mia vita) e, sotto certi aspetti, unica: quindici stagioni agonistiche, nel corso delle quali ho avuto modo di vivere dall’interno tutte le dinamiche che caratterizzano la nostra complessa e affascinantissima disciplina.

Dall’insieme di riflessioni correlate a questa affascinante e, almeno per me, straordinaria esperienza, è derivata l’idea di un modello di organizzazione della preparazione dello schermitore che, ritengo, potrebbe rappresentare un elemento di interesse per gli addetti ai lavori ma anche per i semplici appassionati di scherma.

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